A Bihać, limbo alle porte dell’Ue, una polveriera con 4 mila disperati
TRIESTE Bihać è incastonata tra i monti, eppure vi si respira aria di porto. Per le strade c’è un continuo viavai di umanità, suddivisa in tre gruppi: abitanti del posto, migranti e turisti sauditi. Solo questi ultimi sono benestanti e si riconoscono dalla componente femminile, integralmente velata di nero. Tutti gli altri si arrangiano.
La calca dei 4 mila
I profughi in questo momento sono come minimo 4 mila, ammassati senza assistenza o quasi in una cittadina poco più grande di Gorizia. Alcuni di loro faranno capolino a Trieste, dopo due settimane di cammino all’addiaccio attraverso la foresta. I più rimarranno invece imbottigliati per chissà quanto ai piedi dell’Unione europea, che sembra non volerli, all’interno di un Paese che non è in grado di gestirli: il tasso di disoccupazione in Bosnia Erzegovina tocca il 40%, secondo i dati di agosto. Tanto che pure gli autoctoni emigrano. Chi è qui di passaggio, senza i documenti giusti, tenta di farlo illegalmente.
corsa nella “giungla”
Ogni sera un vero e proprio esodo si dirige nei boschi, o meglio «in the jungle», nell’inglese gergale parlato lungo la rotta balcanica. Ci sono gruppi di uomini ma anche interi nuclei familiari equipaggiati con zaini, sacchetti del supermercato e scarpe di fortuna, spesso ciabatte. Provengono da Pakistan, Afghanistan, Iran, Iraq, Siria, Yemen, Nord Africa. Si arrampicano sulle montagne per varcare il confine con la Croazia, sperando di sfuggire ai pattugliamenti col favore delle tenebre. Lo chiamano «the game», il gioco. C’è chi ci ha provato anche venti volte: se perdi, sei respinto.
Famiglie divise
Non è difficile incontrare migranti feriti al volto, sulle gambe, sulle braccia: imputano i segni alla violenza dei manganelli di Zagabria. Afrah (il nome è stato cambiato) è una ragazza afgana di 15 anni, rimasta bloccata a Bihać con la madre. Il padre è riuscito a raggiungere la Germania assieme all’altra figlia, mentre tre bambini maschi ora sono in Slovenia, da soli: il più grande ha 13 anni. Quanto alla madre, da tre mesi un’ernia le impedisce di proseguire: è ricoverata in neurologia nell’ospedale cittadino. Non parla inglese e piange, mentre le anziane compagne di stanza bosniache le accarezzano la mano borbottando in serbo-croato. L’adolescente di giorno viene a trovare la mamma, di notte dorme nel campo di Borici. Quando va in giro, da sola, ha paura di essere violentata.
Emergenza sanitaria
«Nessuno vuole i migranti – racconta un giovane medico –. Nemmeno in ospedale. C’è un ragazzo nordafricano con le gambe in necrosi. È stato rifiutato da tutti i reparti. Così l’ho accettato io, in psichiatria. Ma a cosa serve…». I problemi sono reali, tanto quanto l’emergenza umanitaria. Qualcuno ha scritto con lo spray su un muro lo slogan «open borders», confini aperti.
I “passeur” col rolex
Una donna bosniaca racconta che alcuni migranti le hanno rubato dal cortile della legna da ardere. Nei gruppi Facebook locali, intanto, la gente inizia a minacciare di sparare ai profughi: si vede che le armi non mancano. Così come non sembra mancare chi approfitta di tutto ciò. In giro per le foreste con Rolex e barba curatissima, il sospetto è che simili personaggi lucrino sui disperati, offrendo loro passaggi a pagamento in auto.
LA TENDOPOLI
Nel tentativo di arginare la situazione, tre mesi fa l’amministrazione comunale ha allestito una tendopoli a Vucjak, a mezz’ora di macchina dalla città, sul limitare di un bosco ancora costellato dalle mine antiuomo degli anni Novanta. I furgoni della polizia bosniaca vi trasportano sistematicamente chi viene sorpreso senza documenti. La polizia dal canto suo non sembra passarsela meglio. Con in dotazione una panca di legno, un container di sapore socialista e una volante, a presidiare l’ingresso del campo ci sono tre agenti. Dentro vivono circa 700 maschi adulti. Numeri che si lasciano scrivere, dal momento che il flusso è costante: attraverso la vegetazione si diparte un sentiero diretto in Croazia. Sotto il sole si mischiano odore di brace, immondizia e sudore. Nelle tende della Mezzaluna rossa turca si dorme in sei o più. Si cucina per terra, nei falò. Niente acqua: si attinge dalle cisterne. Presto attorno ai giornalisti c’è un capannello di curiosi.
Il sogno italiano
Un uomo sulla quarantina, originario del Kashmir, parla inglese e fa da interprete: «Ci va bene qualsiasi posto, ci basta avere lavoro. Sappiamo che in Italia non c’è, ed è un problema. Molti di noi hanno esperienza, chi nell’esercito, chi in ambito agricolo. Abbiamo anche ingegneri, informatici…». Quando siete partiti, eravate consapevoli di quello che avreste trovato strada facendo? «Certo – prosegue –. Viviamo anche noi in un mondo globalizzato con internet, social e notizie in tempo reale. Ma siamo pronti a sacrificarci. Io, se avessi potuto, sarei rimasto a casa mia». Ci tiene a ringraziare gli operatori della croce rossa locale che fanno i turni qui, in numero di 4 o al massimo 6 persone al giorno: «Ci hanno portato le lenzuola delle loro case. Le Nazioni unite invece non ci aiutano. Su quelle coperte c’è scritto “made in Jugoslavia”, non “Onu”». Poi sono i profughi a interrogare: «Perché l’Europa non ci vuole? Siamo una partita a calcio tra politici? ».
LA STRUTTURA OFF LIMITS
Quella di Vucjak non è la struttura più affollata. Bira è un’ex fabbrica in centro città, all’interno della quale sono stipati circa 2.000 migranti tra adulti, minori non accompagnati e persone infette in quarantena, femmine e maschi. Non è stato possibile ottenere il permesso di entrarvi, nonostante le richieste ufficialmente avanzate al Ministero della Sicurezza bosniaco e all’International organization for migration dell’Onu. –
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