A Belgrado la protesta contro il presidente Vucic scalda le piazze. E oggi c'è Putin


BELGRADO Alle sei della sera, l’ora della chiamata a raccolta, la piazza è ancora sgombra. Poca gente che si guarda intorno, in attesa. Poi, con il passare dei minuti, in tantissimi sbucano dal nulla, piano piano. E dietro il grande striscione che aprirà il corteo - «Noi siamo comunque più» di voi, voi governo, presidente Aleksandar Vučić e sostenitori di chi è al potere – alla fine saranno ancora una volta migliaia.
Il corteo è quello che ieri sera, per la settima volta dallo scorso dicembre, ha sfilato nel cuore di Belgrado, epicentro di una rivolta dal basso che in Serbia non accenna a spegnersi. È quella del movimento “1 od 5 miliona”, uno di cinque milioni, pungente riferimento alle parole di Vučić che aveva assicurato che sarebbe rimasto sordo alle richieste degli “indignados” anche se fossero stati appunto cinque milioni.
Ieri, per una volta, la figura di Vučić è rimasta sullo sfondo. A far scendere in piazza la folla è stato in primo luogo il desiderio di chiedere giustizia per Oliver Ivanović, leader moderato serbo del Kosovo ucciso da ignoti proprio un anno fa a Mitrovica nord, la parte serba della città. Folla che ha sfilato compatta, silenziosa, senza slogan urlati. Erano «decine di migliaia», ha assicurato Dragan Djilas, uno dei leader dell’Alleanza per la Serbia, all’opposizione.
Non sono stati i belgradesi a scendere in piazza ieri. A dare man forte agli “indignados” è arrivato in città, dopo aver marciato per quasi 170 chilometri e sfidando gelo e neve, anche un gruppo di attivisti dalla provincia profonda. Sono il pugno di partecipanti a quella che è stata battezzata “Ibarski mars”, capaci di suscitare grande eco nel Paese.
Organizzata dalla sezione di Kraljevo del movimento civico “Lokalni Front”, la marcia era partita proprio da Kraljevo, 40 mila abitanti nella Serbia centrale, il 12 gennaio per arrivare nella capitale ieri sera, accolta dagli applausi dei dimostranti di «1 od 5 miliona».
“Не треба замишљати мраза, ђе ни је огњиште животворне топлоте.” pic.twitter.com/tMevnav490
— Vladan (@bagraubica) 17 gennaio 2019
«Vogliamo denunciare che in Serbia «non c’è più uno Stato, è scomparso da qualche parte tra Belgrado e Kosovska Mitrovica», la città dove Ivanović fu ucciso, spiega amaro Vladan Slavković, 41 anni, una vita nel teatro, tra quelli che hanno messo scarponi e pettorina arancione e hanno macinato chilometri a -5 gradi per arrivare nella capitale a protestare.
I marciatori-dimostranti vogliono «riconquistare lo Stato e riconsegnarlo ai cittadini», qualcosa «di cui abbiamo disperatamente bisogno». «Abbiamo camminato per la gente dignitosa, che non ha grandi richieste, se non quella di vivere una vita normale, senza pressioni politiche», in una Serbia diversa da quella di oggi, aggiunge. Marce simili furono organizzate anche in passato, in particolare durante le proteste del movimento “Otpor” (Resistenza) nel 2000, che portarono alla caduta del regime di Milosević.
Ma perché si protesta, in Serbia? Ieri per Ivanovic, perché «non sappiamo ancora chi l’ha ucciso» spiega Tijana Hegić, una delle voci del movimento “Protiv Diktature” (Contro la dittatura), fra gli organizzatori delle manifestazioni. Ma la lista delle petizioni, sviluppata nelle ultime settimane, è molto più lunga: equo accesso ai media pubblici per l’opposizione, stop a violenze di matrice politica, chiarezza sui piani di Vučić sul Kosovo. Ma si marcia anche per esprimere il disagio per la situazione generale nel Paese. Qui «conta solo il volere di Vučić, vogliamo media liberi, libere elezioni», aggiunge Hegić. Che accusa poi l’Ue, che continua ad appoggiare un «Vučić che si comporta più da tiranno che da presidente».
Il presidente serbo è nel mirino di molti. Ex ultranazionalista trasformatosi in conservatore moderato, sostenuto dalle grandi capitali Ue perché si è impegnato a risolvere il nodo del Kosovo, sotto la sua leadership anche l’economia – registrano i dati statistici – è in ripresa. Ma «non è vero che le cose vanno bene, i salari e le pensioni sono sempre bassi e il costo della vita è troppo alto», assicura Zorica, pensionata. Concorda Vlajko Zikvović, tornato in patria dopo quarant’anni da emigrato a Vienna. «Mio figlio è già partito per Amburgo, mio nipote farà lo stesso, qui ormai non funziona più niente, i giovani se ne vanno», denuncia. «Le istituzioni sono occupate da chi è al potere, il portafoglio è vuoto», racconta invece Boris Arsić, 46 anni.

Oliver Ivanovic, noto leader politico dei serbi del Kosovo, era stato ucciso a colpi d'arma da fuoco il 16 gennaio 2017, a Kosovska Mitrovica. Personalità politica autorevole e leader riconosciuto dei serbi del Kosovo, Ivanovic era stato raggiunto da cinque proiettili poco dopo le 8 nel settore Nord (serbo) di Kosovska Mitrovica. Il killer incappucciato, secondo le cronache dell'epoca, ha usato un'arma col silenziatore freddando l'esponente politico quando stava per entrare nella sede del suo partito "Iniziativa Civica".
Minut tišine za Olivera...#1od5miliona #NasJeIpakViše #OliverIvanovic pic.twitter.com/SkjQdr39y9
— Smiljan Banjac 🇷🇸 (@SmiljanBanjac) 16 gennaio 2019
Poco dopo, a breve distanza da luogo del delitto, era stata trovata un'auto data alle fiamme e senza targa, con la quale si presume l'assassino fosse fuggito. Dopo l'agguato, stando a quanto riferiva dal suo legale, Ivanovic era stato immediatamente trasportato in ospedale, ma tutti i tentativi dei medici di rianimarlo sono risultati vani. L'uccisione di Ivanovic, che da pochi mesi era stato scarcerato dopo aver trascorso quasi tre anni in carcere in Kosovo con l'accusa di crimini di guerra, da lui sempre respinta, rischiò di far salire pericolosamente la tensione interetnica, peraltro sempre latente in Kosovo nei rapporti tra maggioranza albanese e minoranza serba
Il rilascio dell'uomo politico era avvenuto dopo l'annullamento della sentenza di primo grado che condannava Ivanovic a nove anni di reclusione. Per lui si preparava un nuovo processo. Come prima conseguenza dell'attentato, il governo di Belgrado decisero di ritirare la propria delegazione impegnata propro in quei giorni a Bruxelles in una nuova sessione di negoziati a livello tecnico con rappresentanti del Kosovo: questo lo denunciò il capo delegazione Marko Djuric, direttore dell'Ufficio governativo serbo per le questioni del Kosovo. «La nostra delegazione torna immediatamente a Belgrado», aveva detto. Il dialogo tra Belgrado e Pristina si tiene con la mediazione della Ue.
Ma dalla piazza non emerge ancora una concreta alternativa politica. Forse però è una lettura errata. Per capire la natura delle manifestazioni «bisogna tornare al 2000, alla rivoluzione pacifica che portò alla fine della dittatura di Milosevic», spiega Srdjan Cvijić, analista all’Open Society European Policy Institute. Quella volta venne siglato «un contratto sociale, attraverso cui gli elettori espressero il desiderio di vivere in una Serbia europea, democratica, prospera». Ma dal 2012 i Progressisti di Vučić, «in maniera crescente non rispettano» quelle regole, aggiunge. Anche da qui le proteste. Si tratta «di un risveglio» e «non c’è possibilità di ritorno, l’energia» che c’è in piazza «sta crescendo», dice Cvijić.

Non la pensa così Mira, un’anziana, che osserva distante la protesta. «Manifestare non serve a nulla, alla fine qui le cose non vanno male», assicura. Quelli che la pensano come lei - il 53% della popolazione, poco più di metà se i sondaggi sono validi - si conteranno oggi in piazza, al grande raduno di massa organizzato in onore di Putin. Ma anche per sostenere Vučić.
A literally lawish welcome for #Putin in #Belgrade pic.twitter.com/XsgdWsolYu
— Stefano Giantin (@stefanogiantin) 17 gennaio 2019
Dopo gli “indignados” serbi, protagonisti ieri sera, Belgrado è oggi al centro dell’attenzione per l’arrivo in città del presidente russo Vladimir Putin. E per una grande manifestazione – si parla di 70 mila persone in arrivo a Belgrado da tutto il Paese – in onore dello “zar” e del presidente serbo Aleksandar Vučić. Visita e raduno dei pro-Putin e pro-Vučić che si tengono in una città blindatissima. La polizia serba ha annunciato «misure speciali per garantire la sicurezza» del leader russo e degli altri membri della delegazione di Mosca, in particolare nelle “zone rosse” che dovrebbero essere toccate da Putin, dall’imponente “Palata Srbije”, a Novi Beograd, ma anche il memoriale ai soldati sovietici caduti per la liberazione di Belgrado e la cattedrale di San Sava. Qui Vučić e Putin parteciperanno a una cerimonia, mentre fuori dal tempio si prepara un bagno di folla in loro onore.

A scarrozzare Putin da un capo all’altro di Belgrado sarà una limousine blindata, protetta a vista dalle sue guardie del corpo, una Aurus Senat corazzata e ipertecnologica che i media locali hanno ribattezzato «la bestia di Putin». A garantire sicurezza e ordine pubblico, una valanga di agenti serbi: fino a settemila secondo il quotidiano Politika, mentre si presume che siano da giorni in città oltre 200 agenti speciali russi incaricati di sorvegliare itinerari, luoghi d’incontro, qualità del cibo, internet. Ci saranno persino tre Mig-29, donati da Mosca a Belgrado per ammodernare l’aeronautica militare e rimessi in sesto, che scorteranno l’aereo presidenziale russo una v

Il forte e controverso messaggio lanciato dal presidente russo Vladimir Putin dalle colonne dei quotidiani belgradesi Politika e Vecernje Novosti, alla vigilia del suo attesissimo viaggio in Serbia, «per noi Paese strategico», è il seguente: non è la Russia, ma l’Occidente – e in particolare la politica estera degli Usa e quella espansionistica della Nato – il vero «fattore destabilizzante» nei Balcani, oggi. La visita è occasione propizia per il leader del Cremlino per marcare il territorio in un Paese che guarda all’Ue, ma che non rinnega gli storici legami con Mosca.
Putin, sui due più diffusi quotidiani serbi, ha fatto un lungo elenco di episodi per corroborare il suo j’accuse contro l’Ovest. Dai «bombardamenti Nato sulla Jugoslavia» nel 1999 che portarono alla separazione del Kosovo e poi alla sua indipendenza «sostenuta da Washington e dai suoi alleati», per arrivare al 2017, con l’adesione del Montenegro alla Nato «malgrado la posizione contraria di metà della popolazione», fattore di instabilità nel Paese.
E lo stesso scenario si starebbe realizzando ora in Macedonia, dove gli accordi di Prespa sostenuti da Usa e Ue per portare Skopje dapprima nella Nato e poi nell’Ue minerebbero alla base «i fondamenti dell’identità nazionale» dell’ex repubblica jugoslava, ha sostenuto il leader russo. Nella visione di Putin, il ruolo della Russia nei Balcani sarebbe ben diverso. La Russia desidera soltanto «contribuire a rafforzare la stabilità e la sicurezza regionale», ha assicurato. E non metterà i bastoni tra le ruote al cammino d’integrazione europea della Serbia: «Rispettiamo il percorso verso l’Ue scelto dal governo serbo e non vogliamo, come i nostri partner occidentali, imporre a Belgrado una scelta artificiosa tra Russia e Ue». Partner che verso la Serbia avrebbero invece un «atteggiamento colonialista», ha da parte sua rincarato il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, che dovrebbe accompagnare Putin a Belgrado.
Nella capitale serba oggi dovrebbero essere ulteriormente rafforzati i legami tra Serbia e Russia attraverso la firma di una ventina di nuovi accordi, alla presenza di Putin. Uno dei più importanti, ha anticipato il ministro serbo dei Trasporti, Zorana Mihajlović, riguarda il settore dei trasporti e ferroviario, con un contratto da 230 milioni di euro. Ma sul tavolo c’è anche la questione gas, che in Serbia è e sarà russo anche in futuro. Belgrado vuole infatti puntare sul metano che arriverà nei Balcani attraverso un possibile futuro braccio settentrionale – via Bulgaria – del gasdotto TurkStream, il “successore” del defunto South Stream, anche se l’Occidente, ha svelato il presidente serbo Aleksandar Vučić alla vigilia dell’arrivo di Putin, starebbe facendo pressioni sulla Serbia affinché accetti il gas del Tap, Tanap o EastMed.
Ma si discuterà anche dello status diplomatico dei russi del “Centro umanitario russo-serbo” di Nis, sulla carta un centro di protezione civile, un sospetto covo di spie secondo Washington. In più, ha svelato la Tass, si parlerà pure della creazione di una «zona di libero scambio» tra «l’Unione economica euro-asiatica», un mercato di quasi 200 milioni di consumatori e la Serbia.
E poi di forze armate. «Per anni», ha ricordato Putin, «abbiamo aiutato la Serbia a migliorare le sue capacità difensive, fornendo armi ed equipaggiamento militare». E Mosca intende perseverare su questa strada. —
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