A Banja Luka risorge la moschea-simbolo

BELGRADO. Quando venne accesa la miccia, alle 3.02 del 7 maggio 1993, ad assistere al triste spettacolo non c'era nessuno, solo i dinamitardi spediti lì per compiere una chiara azione di pulizia etnica. Radere al suolo una moschea prima con la dinamite e poi con i bulldozer per farne un parcheggio - ma lo stesso valeva per le chiese ortodosse o quelle cattoliche - era un sinistro avvertimento, durante le guerre nell'ex Jugoslavia, per quelli da espellere. Per voi qui non ci sarà mai più posto, il messaggio.
Ieri invece, nel cuore di Banja Luka, capoluogo dell'entità a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina, la Republika Srpska (Rs), erano in diecimila. Diecimila e più persone, in gran parte di fede islamica, che si sono raccolte per celebrare la riapertura della moschea Ferhadija, uno dei simboli della città fino alla guerra e fra i più alti esempi di architettura ottomana nei Balcani, patrimonio Unesco dagli Anni '50. Moschea che fu costruita nel 1579 e rasa al suolo dalle forze serbo-bosniache nel 1993. Ci sono voluti 23 anni - e più di sei milioni di euro arrivati dalla Turchia, ma anche da donatori internazionali e locali - per farla rivivere dov'era e com'era grazie a un lavoro di ricostruzione durato nove anni, recuperando da fossi, laghi e discariche le pietre dell'edificio e ricreando un edificio da un puzzle di 3.500 frammenti.
A celebrare la festa il leader della comunità islamica di Bosnia, Husein Kavazovi„, che ha volato alto ricordando che «le nostre differenze non sono un errore storico, ma un dono di Dio». «È un onore essere qui», ha detto invece Jakob Finci, numero uno della locale comunità ebraica, rammentando quanto è raro che un ebreo partecipi a una cerimonia musulmana, «ma qui in Bosnia è possibile». Accanto a Kavazovi„ e Finci il vescovo cattolico Franjo Komarica e quello ortodosso Jefrem. «Rispettando le altre fedi onoriamo la nostra», ha affermato quest'ultimo. «La Bosnia, con i suoi musulmani, cattolici, croati ed ebrei, è un cuore solo», ha detto invece il premier dimissionario turco, Ahmet Davutoglu, presente ieri a Banja Luka assieme a decine di dignitari stranieri e politici bosniaci, tra cui l'ultranazionalista presidente della Rs, Milorad Dodik. Con la ricostruzione della Ferhadija «Banja Luka e la Republika Srpska hanno mostrato la loro faccia», ha detto Dodik, che ha perfino donato tre tappeti alla rinata moschea.
Parole che dimostrano che i tempi stanno cambiando, seppure con fatica. Di certo sono pochi i musulmani tornati a vivere a Banja Luka, il 10% di quanti vi risiedevano prima del conflitto, ma almeno i loro luoghi-simbolo risorgono. I tempi sono molto mutati dal 7 maggio 2001, quando centinaia di ultranazionalisti si abbandonarono a violenze per impedire la posa della prima pietra, bilancio 70 feriti e un morto. E anche da quella oscura notte del maggio 1993. Non va però dimenticato che la distruzione della Ferhadija - e di altre 15 moschee in città - causò già allora rabbia e choc anche tra tanti serbi di Banja Luka. «Propongo di mettere fuori legge la demonizzazione dei serbi da parte di serbi, a Banja Luka parlano solo di quanto accaduto alla moschea. Non dico si debba ringraziare chi l'ha distrutta, ma a chi si lamenta troppo regalerò una cartolina» della Ferhadija «da portare con sé», ironizzava l'ex politico serbo bosniaco Radoslav Brdjanin due giorni dopo l'esplosione. Brdjanin, condannato a 30 anni per la pulizia etnica in città - ma nessuno è stato punito per la distruzione della Ferhadija - oggi marcisce nelle galere danesi. La Ferhadija, un'altra araba fenice bosniaca come il ponte di Mostar e la biblioteca di Sarajevo, invece è stata richiamata in vita. Cartoline non servono più.
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