26 ottobre 1954: quel giorno finì la Trieste a stelle e strisce
L’aiuola con il pennone della bandiera che c’è all’ingresso del campo di baseball di Opicina è una delle ultime, esplicite tracce rimaste di un periodo della storia di Trieste che terminò sessant’anni fa, il 26 ottobre del 1954. L’aiuola, restaurata recentemente e considerata un vero e proprio memoriale, riproduce lo stemma del Trust, Trieste United States Troops, un quadrifoglio con l’alabarda al centro e, sopra, il cartiglio che una volta riportava la sigla dell’unità militare, oggi il nome della città. Come tutte le vestigia della storia, anche quella di Opicina segna un prima e un dopo, e riporta alla memoria le autocolonne dei camion “Dodge” che già pochi giorni dopo la firma a Londra del Memorandum d’intesa, il 5 ottobre del 1954, comiciarono a lasciare caserme e installazioni militari sparpagliate sull’altipiano.
In pochi giorni le truppe del Trust e quelle del Betfor, il contingente inglese, lasciarono la Zona A del mai nato Territorio libero di Trieste, mettendo la parola fine a oltre nove anni di Governo militare alleato, un tempo in cui la città contesa aveva vissuto come sospesa in una specie di limbo, strattonata dalle diplomazie internazionali, divisa al suo interno, quanto mai incerta sul suo futuro, minata nella sua già complessa identità, strozzata dai confini, ferita da due guerre mondiali e cinque cambi di bandiera in meno di quarant’anni.
Per questo il 26 ottobre del ’54 l’entusiasmo incontenibile con il quale la città salutò il “passaggio di consegne” e l’arrivo delle truppe italiane non siglò soltanto la fine di uno dei più spinosi problemi internazionali del dopoguerra, ma fu il segno di una “normalità” ritrovata, di un’identità ricollocata nell’alveo della Storia dopo un non breve periodo in cui Trieste, al pari della Berlino di allora, sopportò un’esistenza provvisoria e una pericolosa instabilità in grado di compromettere la pace generale.
Fino a quel 26 ottobre 1954 la questione di Trieste aveva condizionato non solo la politica italiana, ma era stata usata come piccola pedina per scompigliare le carte dei giochi fra le quattro potenze vincitrici della seconda guerra mondiali. Allora la “specialità” di Trieste fu quanto mai “speciale”, una realtà attraversata da tensioni contraddittorie, legata in tutto e per tutto agli equilibri internazionali, sostenuta da un’economia assistenziale che ne avrebbe compromesso i futuri sviluppi.
Quando nell’estate del ’45 si insediò il Governo militare alleato Trieste era una città in ginocchio. Prostrata dalle distruzioni dei bombardamenti, dalle ripetute occupazioni - prima quella nazista, poi quella jugoslava, ora quella alleata -, senza più il suo retroterra, con quasi tutte le industrie e le raffinerie fuori uso, il porto danneggiato, minato e zeppo di relitti, migliaia di profughi disperati in arrivo dalle terre cedute, l’economia bloccata, la città era allo stremo. La gestione di una realtà così fragile e complessa avrebbe dovuto tener conto di tutta una serie di fattori politici, strategici, psicologici in un quadro generale che contrapponeva Ori. ente e Occidente. Trieste, diventò l’avamposto di un confronto serrato fra democrazie occidentali e socialismo reale, modello artificiale in cui specchiare l’”American way of life” in contrapposizione alla propaganda comunista e filo-titina, con risvolti paradossali dopo la rottura di Tito con il Cominform nel 1948. La governance della città mutò nel tempo, assestandosi su una sostanziale dualità, fra un’amministrazione militare che aveva l’apparato amministrativo di una vera e propria struttura statale, con il suo capo, il suo governo, i suoi ministeri, e il governo locale.
In quegli anni Trieste visse in una specie di bolla trasparente in cui si mischiavano e sperimentavano forme di assetto sociale e culturale che non avevano uguali nel resto d’Italia, quell’Italia rimasta al di là di Duino. L’ordine pubblico affidato a una Polizia civile mutuata da modelli coloniali meticciati con il meglio dell’intelligence di marca anglosassone, un sistema giudiziario che mischiava giurisprudenza italiana e common law, un vivace proliferare di iniziative culturali furono la cornice di un periodo fecondo ma instabile che ebbe negli scontri del ’52 e del ’53 i suoi momenti più dolorosi e difficili.
Nel complesso la politica finanziaria del Gma portò a una relativa e diffusa stabilità economica, e da sole le strutture del governo militare diedero lavoro, in tutto il comparto del pubblico impiego, a circa 40mila persone.
Il 26 ottobre del 1954 segnò il tramonto di un capitolo di storia, non solo cittadina, breve ma molto intenso. Trieste aveva in qualche modo sperimentato in forma accelerata quanto avrebbe vissuto per altri quarant’anni la città di Belrino Ovest.
Di quei nove anni e 156 giorni di governo militare diretto non sarebbe rimasto molto nella Trieste restituita all’Italia. Vari fattori contingenti e contrastanti impedirono una innesto fruttifero tra idee e culture troppo diverse. Per quasi un decennio la città aveva vissuto sulla difensiva, con atteggiamenti che oscillavano tra speranza, rabbia, diffidenza, paura. Valori nazionali e tradizionali erano stati innalzati come barriera di fronte a una minaccia costante, all’imprevedibilità di una situazione che avrebbe potuto catapultare chissà dove la città da un momento all’altro. Così la vitalità indotta di quei tempi non si trasformò in un’occasione duratura di rinnovamento.
Dopo il 26 ottobre il ricordo del quadrifoglio con l’alabarda venne presto messo da parte, altri problemi stavano bussando alla porta. La partenza delle truppe alleate, i nuovo afflussi di profughi dopo la definitiva cessione della Zona B alla Jugoslavia, e lo smantellamento dell’apparato amministrativo d’occupazione crearono malcontento e proteste da parte dei lavoratori. Il flusso migratorio che seguì la fine del Gma - in solo anno, tra il 1955 e il 1956, diecimila persone lasciarono Trieste - e i benefici di un’economia assistita ripresi dal Governo italiano con iniziative come il fondo di rotazione Frie destinato allo sviluppo industriale del territorio di Trieste e della provincia di Gorizia, impedirono un immediato collasso economico della città. Ma il flusso di sovvenzioni che sostituì l’afflusso di capitali una volta attratti dalla posizione e dal ruolo economico di Trieste non sarebbe bastato a evitare la recessione che si sarebbe manifestata di lì a qualche anno con la crisi cantieristica dei primi anni Sessanta.
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