Lo scherzo telefonico dei due comici russi colpisce anche il premier kosovaro Kurti
Il primo ministro è stato contattato da Vovan e Lexus, che si sono spacciati per il presidente lettone: confidenze e commenti pesanti

Una sorta di “Scherzi a parte” o “Candid camera”, ma con pesanti effetti d’immagine e forse anche sulle relazioni internazionali causa le pesanti battute su Russia, Serbia e pure sugli Usa di Trump. È la sorte toccata al premier kosovaro Albin Kurti, finito nel mirino dei temutissimi - dai leader di mezzo mondo - Vovan e Lexus, due comici russi specializzati nel mascherarsi da politici di alto livello raggirando la vittima di turno per carpirne segreti e confidenze da divulgare poi al grande pubblico tramite video postati sui social.
È quanto accaduto a Kurti, caduto involontariamente nel tranello – prank, in inglese - teso appunto dai prankster Vovan e Lexus (vere identità di Vladimir Kuznetsov e Alexei Stolyarov) spacciatisi stavolta per il presidente lettone Edgars Rinkevics. Kurti era stato contattato dal finto Rinkevics poco dopo la vittoria di Pirro del partito Vetevendosje di Kurti alle elezioni di febbraio, una videotelefonata per congratularsi con il premier di Pristina «per la sua grande vittoria» alle urne. Erano momenti concitati, «impossibile verificare» nel dettaglio tutte le chiamate ricevute da Kurti in quel periodo, hanno spiegato dal gabinetto del primo ministro confermando la veridicità del video postato nei giorni scorsi da Vovan e Lexus.
Video che ha contenuti estremamente delicati e pesanti per Kurti, che si è lasciato andare fin troppo con il finto Rinkevics nella conversazione durata poco più di dieci minuti. Kurti ha esordito parlando dei problemi più urgenti del Kosovo, ossia Serbia e Russia, che avrebbero lanciato una «guerra ibrida» contro il suo esecutivo «fin dall’inizio». Molto più pesante l’attacco sferrato poi da Kurti contro Richard Grenell, neo-Inviato speciale del presidente Usa per gli Affari speciali, già in passato Inviato speciale per i negoziati di pace tra Serbia e Kosovo, oltre che ex ambasciatore Usa a Berlino.
Grenell, oggi di nuovo uno degli uomini più potenti a Washington – e con forti influenze nei Balcani – «è stato contro di me per quattro anni», ha sostenuto Kurti. Ora «è in linea con l’opposizione ed è stato premiato a Belgrado da un Paese autoritario», ha poi aggiunto con malignità, spingendosi poi a sottolineare che Grenell «è gay», uscita Cui il finto presidente lettone ha replicato chiedendo al premier kosovaro se sapeva «che lo sono anche io». Gelo.
Kurti però è subito ripartito lancia in resta: «Non avremo pace in Europa con una Russia espansionistica e imperialistica e noi, nei Balcani, come la Moldova siamo fragili». Anche per questo «vogliamo far parte della Nato», ha detto Kurti. Sull’Ucraina, Kurti ha sostenuto che l’Occidente non avrebbe fatto abbastanza per sostenere militarmente Kiev, che avrebbe potuto «vincere» contro Mosca come «i talebani contro l’Urss». Chi invece aiuta il Kosovo, che vuole «costruire il proprio esercito», sono «Stati Uniti, Gran Bretagna, Croazia, Turchia», tutte nazioni dalle quali Pristina sta acquistando armamenti e «produrremo munizioni» in patria, ha confidato Kurti. Così costringeremo «il nostro avversario, la Serbia, a pensarci due volte prima di attaccarci ancora».
«Dobbiamo diventare più forti», ha aggiunto, per poi accusare nuovamente Belgrado di aver fatto saltare in aria il canale Ibar-Lepenac. Kurti ha svelato infine gli obiettivi-chiave di Pristina: se l’Ue appare lontana, Pristina vuole entrare subito «nel Consiglio d’Europa e nella Nato, lo si può fare molto velocemente». Le proteste a Belgrado? «L’opposizione democratica in Serbia, gli studenti, non ricevono abbastanza sostegno dalla Ue, come dovrebbero». Cosa dovrebbero fare? «Liberarsi dal regime filorusso in Serbia e che la Serbia riconosca il Kosovo», ha avanzato Kurti. Unica consolazione, per il premier kosovaro, il fatto di non essere la prima vittima di Vovan e Lexus, che in passato avevano beffato anche il polacco Andrzej Duda, il leader turco Erdogan, quello macedone Zoran Zaev. E pure l’italiana Giorgia Meloni.
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