In Serbia oltre centomila firme contro la nuova miniera di litio

Petizione rivolta alla Commissione europea: no al progetto sostenuto dall’Ue nell’area di Loznica

Stefano Giantin
Foto dall’alto di una miniera per l’estrazione del litio in Serbia gestita dalla società Rio Tinto
Foto dall’alto di una miniera per l’estrazione del litio in Serbia gestita dalla società Rio Tinto

Non solo università e licei occupati, proteste quotidiane, una crisi politica e sociale di cui non s’intravede la fine. In Serbia potrebbe presto riesplodere la rabbia popolare anche per una questione irrisolta ed estremamente delicata: quella del litio, “oro bianco” di cui il Paese è ricco. E che il colosso straniero Rio Tinto mira da anni a sfruttare, fermato per ora solo da massicce proteste di piazza e dall’opposizione di gran parte della popolazione.

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Il tema è tornato prepotentemente d’attualità dopo che l’Unione europea ha reso noti i 47 progetti strategici che, nelle intenzioni di Bruxelles, dovrebbero garantire l’indipendenza del Vecchio continente sul fronte delle cosiddette materie prime critiche: nichel, cobalto, grafite, manganese e naturalmente litio. Progetti che sono stati indicati anche in una mappa che elenca i siti strategici in Europa dal Portogallo fino alla Finlandia, a Francia, Polonia, Romania, Grecia.

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E la Serbia? Non c’è, hanno osservato con soddisfazione i tanti oppositori del Progetto Jadar che sulla carta avrebbe dovuto interessare la Serbia occidentale, nell’area di Loznica: Rio Tinto aveva progettato una grande miniera, con investimenti stimati di due miliardi di dollari. Secondo stime di esperti, il litio serbo potrebbe coprire il 10% del fabbisogno globale, in crescita a causa della domanda della nuova economia “verde”, soprattutto per le batterie di auto elettriche e pannelli fotovoltaici. Tutto è però rimasto solo sulla carta, dopo le massicce proteste di piazza registrate a Belgrado e nel resto della Serbia tra il 2021 e il 2022, con strade e autostrade bloccate e decine di migliaia in piazza a denunciare il devastante impatto ambientale derivante dall’estrazione del litio.

Il governo aveva fatto alla fine marcia indietro. Ma l’anno scorso il progetto Jadar aveva conosciuto una nuova accelerazione, in particolare dopo la firma di un controverso memorandum d’intesa tra Ue e Belgrado su una «partnership strategica» sulle materie prime sostenibili, sulle catene di fornitura delle batterie e sui veicoli elettrici.

Da allora, di nuovo blackout. E il fatto che la Serbia non sia stata inserita da Bruxelles nella lista dei 47 progetti strategici ha fatto tirare un sospiro di sollievo agli “indignados” serbi. Per poco. È quanto ha suggerito il presidente serbo Vučić, che ha anticipato che l’Ue dovrebbe concedere anche allo Jadar lo status di progetto strategico nel giro di qualche giorno, durante una nuova tornata di selezioni dedicata appunto ai Paesi ancora fuori dal club europeo che più conta. Parole, quelle di Vučić e mosse, quelle che potrebbe fare Bruxelles, che rischiano di creare un terremoto, in una Serbia già instabile.

I gruppi social su cui cittadini e studenti coordinano le proteste ribollono ormai da giorni, con appelli a salire sulle barricate se lo Jadar dovesse “risorgere”. «Non siamo il cortiletto della mafia delle miniere, i nostri avvocati sono già al lavoro per preparare ricorsi» hanno avvisato da parte loro diverse Ong e associazioni, tra cui Mars Na Drini, da anni in prima fila contro il progetto Jadar. E il malcontento si rafforza, con oltre centomila serbi che, in pochi giorni, hanno sottoscritto una petizione-lettera aperta, proposta dall’associazione Eko Straza e diretta alla Commissione europea e a von der Leyen, che chiede appunto che il Progetto Jadar «sia cancellato dalla lista dei progetti strategici fuori dai confini Ue». Se così sarà lo si scoprirà a breve.

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